Uno dei più importanti momenti letterari per me: leggere gli Scritti corsari. Inquadrano, definiscono tra le altre cose la deriva consumistica in cui si era oramai avvitato il nostro Paese verso il Nulla a cui siamo arrivati oggi. Erano gli articoli che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul “Corriere della Sera” dal 1973 al 1975; il suo sguardo non ha più un aspetto amorevole, non c’è più pietà, avrà lo stesso tono del suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, che verrà mandato nelle sale alcune settimane dopo l’uccisione del poeta massacrato all’Idroscalo di Ostia in condizioni ancora non del tutto chiarite.
Era un Pasolini che non sentiva di avere più un futuro, che aveva visto sfumare l’amore della sua vita, Ninetto Davoli che si era sposato e voleva avere una famiglia tradizionale. Nel 1970 acquistò la torre di Chia, nei pressi di Soriano del Cimino (vicino Viterbo) e lì cominciò a scrivere quello che doveva forse nelle sue intenzioni essere il suo ultimo romanzo: Petrolio. Nella lettera che scrisse a Moravia per accompagnare la prima stesura del manoscritto affermava: “È un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi, la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia”.
Petrolio nelle intenzioni del poeta non doveva essere un romanzo storico, ma una forma. Walter Siti dichiara: “Tutto l’apparato formale del testo… doveva essere una specie di critica di un romanzo non finito; Pasolini affabulava di inserire in una prefazione il fatto che l’autore di questo romanzo fosse morto prima del tempo, lasciandolo incompiuto, per l’edizione critica fittizia”. La morte del poeta è stato quindi un cortocircuito che ci ha lasciato inaspettatamente per quasi vent’anni senza leggere il romanzo (perché tutto questo tempo?). È un Pasolini che negli ultimi anni appare sempre più lucido (forse anche disperato?) nella lettura degli eventi e che vede nell’ENI e nel petrolio uno dei caposaldi della restaurazione capitalistica che si nutriva anche di politica deviata, servizi segreti, destra eversiva, mafia e massoneria.
In quel tempo era frequente che la sera il poeta uscisse in cerca di avventure che diventavano sempre più “violente”. Era come se nella sua mente avesse oramai sposato la morte. Pasolini aveva abiurato dal punto di vista cinematografico la trilogia della vita e si preparava alla trilogia della morte, di cui l’unico episodio fu Salò o le 120 giornate di Sodoma, a causa naturalmente della morte violenta subita dal poeta. I temi oltre alla morte, erano il dolore fisico e psichico e il sesso che veniva illustrato nel suo aspetto vizioso. L’opera sadiana veniva rappresentata come il prodotto più genuino del totalitarismo della Ragione e della sua indifferenza all’umano. Un film terribile e magnifico, che disturba e inquieta come le vere opere d’arte. Nella sua ultima intervista a un programma francese Pasolini affermava: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista”. Salò sarà requisito nel 1976, per poi essere definitivamente liberato nel 1978.
Gli ultimi anni di Pasolini sono stati una dichiarazione continua contro il Potere e le sue complicate, differenti manifestazioni. Il suo corpo all’idroscalo è stato vilmente massacrato, non può essere stato soltanto colpa di una persona. Le voci raccolte da Sergio Citti nella zona erano che fosse caduto in una sorta d’imboscata da parte di un gruppo di fascisti che volevano uccidere il poeta. Pelosi sarebbe stato soltanto un’esca.
di Fabio Cozzi