Milan Kundera è un giocherellone. Ama ridicolizzare i suoi personaggi, metterli in ginocchio al servizio della storia, del tempo e dello spazio. Fa prendere loro ceffoni da tutti i lati; ma ci fa capire anche qualcosa di molto importante: siamo burattini che provano timidamente a tranciare i fili che ci muovono.
L’insostenibile leggerezza dell’essere è un romanzo in cui il dramma viene travestito di ironia. Ciò che è leggero è pesante, ciò che è pesante è leggero; ciò che è positivo è negativo, ciò che è negativo è positivo; ciò che è dopotutto non è e così via. Siamo noi a trasformare le cose, gli eventi, le persone. Siamo noi che plasmiamo tutto secondo i nostri bisogni. La serenità è indifferenza. Se guardassimo il mondo con occhi indifferenti tutto ci apparirebbe giusto, non ci porremmo domande, saremmo solo fenomenologicamente presenti.
Il resto è spettacolo. L’uomo è il suo dramma, tenta di fare della sua vita un’opera d’arte in quanto vuole raggiungere le vette della felicità; vuole arrivare a dire
ora sono io nel momento in cui ha raggiunto tutte le sue aspettative. E proprio questa corsa folle e disperata verso la leggerezza, nel mezzo della quale si devono superare ostacoli, prove, cadute, malanni e dolori, rende ogni cosa pesante, seriosa. Invece, la vita non è seria, ma è banale. Cosa resta di Beethoven? Cosa resta di Stalin? Cosa resta di tutti? Attraverso i suoi personaggi, Kundera fa vedere che alla fine rimane solo un ritratto, una frase, una sinfonia, un discorso, qualcosa su cui altri uomini rimugineranno, che altri ancora correggeranno, che altri ancora consegneranno all’oblio.
E poi tutto si fa kitsch, ossia ogni azione o intenzione è un oggetto artistico che vuole essere riconosciuto come unico e inestimabile. Ed eccola comparire la ricerca del valore, quel valore che appesantisce tutto. Di quanta volgarità l’essere umano si è cinto il capo? Kundera chiama kitsch quel processo di spettacolarizzazione che guida da sempre l’umanità. Forse è il peso della spettacolarizzazione che portò Nietzsche a teorizzare il suo eterno ritorno?
Così Kundera alleggerisce ogni cosa e lo ha fatto in altri suoi romanzi. Ad esempio, nel bel mezzo del suo La lentezza fa elogiare a uno dei personaggi il buco del culo, la nona porta secondo Apollinaire. Così intimo e vitale, più della vulva, il buco del culo proprio per la sua capacità di starsene in disparte e per essere sempre stato degradato per la sua funzione ingrata, ha un fascino tutto suo, grazie al quale continua la sua rivolta.
Ma come detto, lui è un giocherellone e scherza con tutti, anche con quei teologi medievali che erano convinti che Gesù pur mangiando e bevendo, non defecasse, ché la merda è una cosa immonda, un peso di cui il corpo non vede l’ora di liberarsi; così come Giovanni Scoto Eriùgena era convinto che nel Paradiso Terrestre, Adamo fosse in grado di alzare il suo pene come si fa con un braccio, ossia senza necessità di provare piacere, perché il Paradiso è già piacere, ma non eccitazione. L’eccitazione, infatti, è una forza tentatrice e malvagia che abita sulla Terra, che sta fuori dalle lande divine.