Citazioni dal libro: “Di roccia, di neve, di piombo” di Andrea Nicolussi Golo (Priuli & Verlucca Editori)
“Li vuole dalla montagna i suoi schiavi la fabbrica, li vuole dalla montagna perché sono più resistenti, ma soprattutto sono silenziosi. Quelli delle montagne parlano di rado, sul lavoro mai.”
La montagna, come ogni altro luogo, è il paradiso dei pochi costruito con l’inferno dei molti.
“Anch’io un giorno, forse, smetterò di amarla, la neve; allora sarò vecchio. Lo so.”
“Gruzz Gott”
“Un uomo e una donna con tanta neve accumulatasi sulle loro spalle.”
“Sopra il profilo della città fabbrica uno sbuffo di vapore annoiato; il sangue, il dolore, la rabbia, la fatica, l’abbandono non trovano appiglio sui muri rugginosi, tutto scivola via e diventa cosa da nulla.
La vita di un operaio è cosa da nulla. È la fabbrica importante.”
“La ragazza ha radi capelli rossi striati di bianco, è entrata in cella che era primavera, ne esce che è autunno. Dopo due anni. Piangendo la abbraccia l’amica, l’assassina premurosa a cui deve la guarigione e la rabbia necessaria per vivere avanti. Amica di omicide è la sorte della ragazza di San Martino.
La abbraccia la madre, quella sua figlia infelice…e l’ abbraccerà un’ultima volta, molti anni dopo, l’acqua fredda del grande fiume immobile, la ragazza che aveva i capelli rossi. Succederà la vigilia di Natale.
Il ventiquattro dicembre le acque dei fiumi cantano con la voce degli angeli annegati.”
Maria Santissima ad Nives.
Come la neve, come l’innocenza perduta, come il ventre orfano dei propri figli.
Di roccia e di neve sono i suoi protagonisti e di piombo le loro sorti.
Montanari, contadini e operai, emigrati per censo, tra la catena e il piombo degli anni avuti in dote.
Nives,la ragazza con i capelli rossi e le mani sciupate, mangiate troppo presto dalla fabbrica, non aveva mai dimenticato la roccia di cui era costituita,di roccia e di neve, della montagna che continuava a cercare come lo scrigno della dignità perduta troppo presto e per troppo poco, quella stessa montagna che la vide con i suoi Compagni perdere tutto, tutti insieme: un amico, la Memoria limpida, la lucidità, il senso offuscato dei loro anni e loro stessi.
Le citazioni ad inizio recensione, oltre che doverose alla penna dell’Autore, a mio parere sono degli spiragli per avvicinarsi a questo libro a tinte forti,fatto di spigoli duri e di contrasti,ma nella dolcezza, come nell’ amarezza profonda verso la grande ingiustizia sociale che perpetua in ogni tempo la propria rapina della vita delle persone, l’ autore sparge parole fatte di neve,che scendono lente o sparse, che danno pace o non danno scampo, che sono l’ ultima gioia e l’ultima disgrazia.
Di roccia come una sentenza e di neve come tutti i dubbi plausibili sulla stessa.
L’ autore non ha ancora smesso di amarla…la neve. Fortunatamente.
Fa a pugni con le parole, quelle articolate con dose ed “etichetta”, le manda in frantumi e ne accarezza il bianco lenzuolo per il sudario dei sommersi, ripetendo un rito antico di profonda e universale umanità che in determinati periodi sembra perdere il lume di sé.
La neve, immobile, immensa, incolpevole, trattiene in un abbraccio tutti i suoi morti, come l’onda del mare riporta verso un porto sicuro chi non ha più nome né voce, per una riva che ne accoglierà con dignità eterna la sua pace sconosciuta.
La pace di un’assoluzione che invece nessuno dei protagonisti di questo libro avrà.
Qualcuno pagherà per tutti, qualcuno andrà avanti, qualcuno vivrà di colpa per sempre.
Questo libro,che pietrifica la terra, l’acqua e il fuoco, appassiona e scuote rabbia, grida e sussurra che ci si abitua talmente in fretta all’orrore che deturpa, umilia e spezza la vita umana come un pegno da pagare per l’opportunità che taluni chiamano dono…
È scritto per essere compreso in ogni sua ferita, è un libro di ferite e di spiragli, come lo sono sempre la speranza di un pianoro prossimo durante una salita che non finirà mai.
È un libro di donne e uomini che dividono le proprie sorti, senza veramente condividerle, condividono silenzi,fatica e alienazione, impegno politico e case, ma non condividono le ferite, i silenzi, né la solidarietà umana. Determinate congiunture storiche del resto non fanno sconti a nessuno.
Ma soprattutto è un libro di madri e di figlie che nelle lacerazioni materiali e morali, intime e non, ritrovano la stessa catena che le lega. Che le lega inevitabilmente a morte e a vita.
È il libro dove la Madre montagna che perde i suoi figli custodisce nelle proprie figlie il ventre profondo di ciò che non può essere mai rapinato, stuprato e perduto per sempre. È il libro delle donne custodi di dolori mai passati e fatiche mai ripagate, custodi di un’ingiustizia sociale che sulle loro spalle pesa sempre il doppio…e per questo madri dell’ultima scintilla possibile anche nel buio più fitto.
Ripercorrendo anni bui della nostra Storia recente, attraverso la drammatica parabola dei suoi protagonisti, la sua lettura propone paradigmi e dubbi, e soprattutto molte domande la cui risposta è sempre diversa nei diversi Tempi della vita di ciascuno di noi, e che varia a seconda del grado di capacità e volontà critica che ogni volta vogliamo opporre all’omertà di comodo.
Taglia come la roccia, brucia come la neve e uccide come il piombo l’ignavia di cui siamo ingozzati da sempre.
Sacrifica innocenti e colpevoli nel nome degli occhi e della mente di chi lo legge.
Tutti vinti in un sistema accettato dai più come ineluttabile “fine della Storia” e che sempre più indisturbato continua ad uccidere donne, uomini, bambini, comunità, territori e futuro.
Questo è il paradigma che non risparmia nessuno e nessun luogo, difatti anche la montagna, come ogni altro luogo, è il paradiso dei pochi costruito sull’inferno dei molti, costretti ad andare via o al ricatto, a seconda delle mode del momento.
La città è la “Merica” degli sfruttati, degli alienati, degli schiavi del bisogno costretti alla perpetua rapina chiamata dovere e libertà, e acclamata come salvezza.
I dubbi invece sono affidati agli esseri umani, portatori per natura di limiti, la cui quotidianità si incontra e si scontra con la Storia, con la fortunata o disgraziata congiuntura avuta in sorte, con la volubilità inconsapevole del caso che può stringere la tua mano a quella di un giuda traditore, consapevole o meno, di un fedele consapevole o inconsapevole anch’ esso, come di un pentito o un penitente, il cui riscatto non esiste neppure in un’ illusione, o è pari a nulla, come è spesso la realtà della vita spogliata di tutte le sue ipocrisie.
Il paradigma è negli elementi universali:la montagna Madre e la donna Madre, orfane di figlie e figli, ma custodi di speranza. I dubbi invece sono della contingenza, nel caso specifico tragica e capace di porre tutto in una fosca nebbia dove la sagoma di ognuno sembra lo spettro che nascondiamo al nostro specchio quotidiano.
Quella contingenza che solitamente pesa macigni, perché di difficile gestione e talvolta di impossibile interpretazione.
La contingenza pesa tutti i macigni della nebbia che man mano gli anni dissipano nella Storia, ferendo ancora di più la propria Memoria di vita.
E tutte le ferite aperte di questo libro sono balsamo e sale, per chi scrive e per chi legge, perché un sistema feroce e inumano, che si nutre della vita dei migliori, non porterà mai pace, né assoluzione e non chiuderà mai le cicatrici che lascia sulla pelle viva di chi vi sopravvive, vivo, morto, colpevole o non colpevole o incapace di comprenderlo.
Articolo di Ilaria Teofani