Alcuni libri – ma in questo caso dovrei dire alcuni scrittori – ti prendono con forza e ti costringono a seguirli in un viaggio ad “Inferos” che è poi il rovesciamento ironico-tragico del tomistico “Itinerarium mentis in deum”. Il finale scioglierà in pagine di ordinaria follia – compresa quella divina – la “désis” del racconto, di cui in qualche modo rappresenta la “lysis”, proprio come avviene nella tragedia greca. E il deus ex machina che dipana la matassa è lo stesso che l’ha sapientemente, ossessivamente costruita, è LUI, soggetto multiplo e contraddittorio: narratore/ protagonista/ deuteragonista/ alter ego, profanatore del valore della letteratura e della scrittura stessa, sabotatore – come lo era stato Thomas Bernhard – della concezione tradizionale del narrare come “aedificatio e re-praesentatio”. Non c’è modo di riassumere questo scritto malgré lui: Martino Ciano vorrebbe valicare lo stesso ostacolo della traduzione del pensato in forma comunicativa e portarci senza mediazione verbale all’interno della sua mente, del suo cervello nell’atto stesso del pensare. L’effetto è molto affine a quello dei romanzi di Bernhard – meta-personaggio telepaticamente evocato – per l’eccezionalità stilistica martellante, maniacale, per la ricorsività (proprio in senso nicciano) spazio-temporale (la stanza con il camino, luogo sacralizzato dall’inconscio e tabuizzato dalla coscienza), per l’intento distruttivo nei confronti dell’amore e degli affetti (?) familiari sempre accompagnati dal doloroso, inquietante rapporto con sé stesso e il proprio corpo. Macchie di rosso, sangue, carne, viscere scoperte, siglano simbolicamente l’inaudita esplosione della follia e con il loro reiterarsi contribuiscono all’effetto di “eterno ritorno”, anche del rimosso. Lo stile vertiginoso di questo maledetto scribacchino, defecatore di idee che ipotizza un lettore complice e omologo, rincorre un pensiero segmentato, avvitato su sé stesso, relativizzato fino all’implausibile, riuscendo a costruire un oggetto funereo, un’ars moriendi, un triumphus mortis neo-moderno e insieme un atto d’accusa al fare borghese visto come sistema asfittico e indegnamente “conveniente”. Denso, rabbioso, talvolta iperrealistico, questo testo va infilzato con un solo colpo di lettura. Impossibile, direi anzi sconveniente, farlo a piccole dosi. Si rischia di non coglierne tutto l’impeto anarchico.
Recensione di Caterina Valchera