“Come se il mare si dovesse aprire
mostrando un altro mare –
e quello – un altro – e i tre
non fossero che annuncio –
di epoche di mari –
non raggiunti da rive –
mari che sono rive di se stessi –
l’eternità – è così –”.
Emily Dickinson, Centoquattro poesie
È grazie a Lavinia Dickinson che oggi possiamo leggere, ma soprattutto apprezzare, l’inestimabile estro della celebre poetessa di Amherst (Massachusetts) che, dopo i trent’anni, decise volontariamente di isolarsi dal mondo, lasciandolo fuori ad immaginarla vestita di bianco a rappresentare purezza.
Fu proprio Lavinia a rinvenire, nel cassetto dello scrittoio in legno di ciliegio della sorella Emily, le numerosissime poesie contenenti le grida assordanti di una donna dalla penna soave che con i suoi versi continua ad essere tanto attuale quanto consolatoria. Le poesie vennero ritrovate in perfette condizioni, preparate dalla stessa poetessa con lavoro certosino; Emily, infatti, le aveva trascritte su foglietti ripiegati, cuciti con ago e filo, pronte per fare il loro ingresso nell’immortalità.
Su Emily Dickinson è stato scritto tutto e il contrario di tutto, ciò che colpisce particolarmente è l’universo interiore in cui la poetessa ha cercato rifugio e consolazione. Un universo interiore che, però, trae ispirazione dall’esterno e si mescola alla sensualità velata dei suoi versi, alle istantanee folgoranti che ci lascia, al segno distintivo di rottura con la tradizione che la vide distinguersi nell’ottocentesco mare magnum poetico arrivando fino ai giorni nostri con tutta la sua potenza illuminante.
In un periodo storico come quello in cui stiamo vivendo riscoprire l’arte poetica e la magia che ne scaturisce è atto dovuto per poterci ritagliare dei frammenti di evasione dalla realtà e per scongiurare il rischio di perderci nello sconforto e nell’oblio.
Eleonora Nucciarelli