Giuseppe Genna è stato il primo scrittore a far uscire per Rizzoli una sorta di diario dei mesi passati col titolo Reality. Cosa è successo che ha naturalmente come scenografia la zona rossa per antonomasia del nostro Paese: la Lombardia e le sue città ferite, Milano e Bergamo.
Il libro, romanzo (?), di Genna è un girovagare “malato” per le zone che hanno visto la più alta percentuale di contagi e di morti. È una ricognizione sui luoghi già devastati, già malati del tardo-capitalismo e che vengono indeboliti ancora di più da un fenomeno antico e al tempo stesso nuovo, quello del virus, che non può non far paura, perché nelle nostre vite era un ricordo di storia/letteratura oppure soltanto una previsione da futuro distopico. Siamo nudi di fronte alla pandemia che associamo alla forma virale più atroce del Novecento, la famosa “Spagnola” che fece milioni di morti alla fine della Prima guerra mondiale. Ma, secondo Genna, eravamo già tutti infettati, tutti pronti a farci contagiare, così devastati dagli psicofarmaci e dagli oggetti del luxury della “città immorale” che ci venivano propinati come una droga ad alto dosaggio:
“Eravamo malati, eravamo già tutti malati a Milano la pretenziosa. Si aggiravano contagiati già prima del contagio. Il lusso organizzato, il finto lusso a portata dei moltissimi pochi, distorceva le ore di vita, i lineamenti, l’abbigliamento metropolitano, mentre il grasso dei ratti cuoceva nel guano delle cantine delle case popolari, le sterminate periferie dell’orrore della città concentrica.”
L’io narrante, affetto da un’asma fastidiosa, è l’entità che in vespa si aggira per i luoghi del contagio con la voglia di registrare l’immane disastro, quasi ad assumere su di sé la testimonianza di capire il nuovo fenomeno che ha avuto il potere di bloccare la globalizzazione, la quale pareva inarrestabile in questi ultimi decenni. Ci siamo trovati impreparati, con i nostri “ritmi da criceto”, a vivere l’ondata pandemica, un’ondata che si è alzata fino ad oscurare il cielo e a cui non potevamo offrire nessuno ostacolo, perché il virus è invisibile e subdolo.
Il Lodigiano, per l’io narrante, significa la Polenghi Lombardo che da bambino andò a visitare in gita scolastica, facendo indigestione, alla fine della visita, delle galatine, le piccole tavolette al latte che sono uno dei simboli dell’industria alimentare a larga scala che fa bella mostra di sé nei supermercati:
“Mi sentivo contaminato nel pullman, era una zona rossa antica, acquitrinosa, mi sembravano morte che vivevano le mucche della Polenghi Lombardo e non volevamo mai più essere lì, nessun bambino voleva essere a Codogno.”
La via crucis del contagio ha Bergamo tra le sue tappe principali, con il sindaco, Giorgio Gori, che aveva fatto una fulgida carriera nelle televisioni berlusconiane. Il suo sguardo non riesce ora a leggere il nuovo quadro, la nuova “realtà” che si è improvvisamente palesata davanti ai suoi occhi e che aveva tentato, in un primo momento, di sottovalutare andando a mangiare con la moglie nel più famoso ristorante della città:
Perché questo non è un reality televisivo, è il sangue e la carne di chi sta morendo da solo in una corsia d’ospedale, oppure in casa senza aver mai fatto un tampone o, peggio, in una casa di riposo. È la morte che riprende possesso delle nostre vite. Alla fine degli anni Ottanta Guy Debord osservava in Italia la nascita di una peculiare società dello spettacolo, fondata su: il continuo rinnovamento tecnologico, la fusione economico-statale, il segreto generalizzato, il falso indiscutibile e un eterno presente. La politica, così, si è completamente sputtanata, qui più che altrove. Anzi, gli italiani sono stati gli anticipatori dei tempi nuovi, come adesso con la freccia rossa dei contagi che si irradiava dall’Italia e invadeva tutto il mondo.
Recensione di Fabio Cozzi
“Reality” di Giuseppe Genna, Rizzoli
Pagine 320, € 19,00