Chi di noi non ha letto un libro dello scrittore Emilio Salgari (La Tigre di Mompracem, Il Corsaro nero, ecc…) o visto un film ispirato a un suo libro (leggendaria la serie televisiva Sandokan, interpretato da Kabir Bedi e ispirato ai suoi libri tra cui I pirati della Malesia.
Salgari scrisse anche romanzi storici, come Cartagine in Fiamme, e diverse storie fantastiche, come Le meraviglie del Duemila in cui prefigura la società di allora a distanza di un secolo, un romanzo precursore della fantascienza in Italia.
Nella sua vita Salgari fu un “viaggiatore virtuale”: il creatore de La Tigre di Mompracem viaggiò pochissimo, ma fu un “divoratore di atlanti e dizionari”, grazie ai quali inventò più di 1.300 personaggi, basando ogni suo libro su scrupolosi approfondimenti, e scontrandosi con gli editori dell’epoca a causa di gravi problemi economici.
I contratti di lavoro obbligarono Salgari a scrivere tre libri l’anno e, per mantenere quei ritmi, fu costretto a scrivere tre pagine al giorno. A causa del conseguente stress scriveva fumando un centinaio di sigarette al giorno e beveva un bicchiere di vino marsala dopo l’altro. Inoltre dirigeva contemporaneamente un periodico di viaggi. Una mole di lavoro enorme dove non solo non guadagnava, ma non era nemmeno considerato dai circoli letterari dell’epoca.
All’amico pittore Gamba scriveva nel 1909:
«La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno e alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza avere avuto il tempo di rileggere e correggere».
I suoi nervi non ressero. A ciò si aggiunse la nostalgia della moglie, ricoverata da mesi in manicomio.
Tutto questo ci fa pensare a come spesso le vite di autori di successo (successo economico per l’editore, ma non per lo scrittore) nascondano storie di disperazione e sfruttamento. E Salgari ne fu un eclatante esempio quando la mattina del 25 aprile 1911, uscì di casa per l’ultima volta, i figli lo videro salire su un tram più strano del solito e sparire per sempre. Coperto dai debiti verso le case editrici che aveva arricchito, umiliato dagli intellettuali che lo avrebbero rivalutato negli anni, perduto il sostegno della giovane moglie ricoverata in manicomio, si tolse la vita facendo harakiri”.
Lo trovarono con la gola e il ventre squarciati nel bosco di Val San Martino presso la zona collinare che sovrasta il corso Casale di Torino, dove con la famiglia andava solitamente a fare i pic-nic.
Nella mano destra stringeva un rasoio affilato, nella tasche aveva cinquantasei lire d’argento e, accartocciati in fondo, la ricevuta di un pacco di manoscritti appena inviati e tre lettere scritte con la sua calligrafia minuta. Una ai figli, l’altra ai direttori dei quotidiani torinesi, l’ultima agli editori: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in un continua semi miseria vi chiedo che pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”.
Articolo di Giovanni Parrella