Quando le giovani iraniane parlano della libertà, i loro occhi brillano, come se parlassero di un oggetto di marca che non si possono permettere. Come se dire azadi fosse lo stesso che dire borsetta Louis Vuitton”.

Libertà, una parola e un valore che tendiamo a sottovalutare perché a portata di mano, perché ritenuto innato rispetto alla nostra condizione, una modalità di esistere e una dimensione dell’umano che percepiamo come inscindibili rispetto a noi stessi. Eppure per molti popoli non è così. E soprattutto per molte donne non è così. È quello che ci ricorda Nava Ebrahimi nel suo romanzo d’esordio “Sedici parole”, in Italia pubblicato nel 2020 da Keller Editore.

La storia che ci racconta l’autrice, nata a Teheran ma che vive e lavora in Germania, è quella di Mona, suo probabile alter ego, una giornalista di origini iraniane, che vive a Colonia e che fa ritorno in Iran in occasione della morte della nonna, una donna originale, un po’ stravagante che fino all’ultimo ha custodito un segreto di cui Mona verrà a conoscenza solo dopo la sua scomparsa.

Il ritorno nel paese d’origine ci viene raccontato attraverso sedici parole della lingua persiana che racchiudono, non solo dal punto di vista etimologico ma soprattutto di valenza sociologica, la storia di un paese complesso e misterioso, quale appunto l’Iran, o antica Persia.

Un racconto in cui il quotidiano del ritorno si intreccia con il passato, con le ragioni della partenza e dell’abbandono, con le scelte obbligate di alcuni membri della famiglia, mai comprese e condivise da altri familiari.

Quello che la Ebrahimi ci regala è un affresco in cui, sullo sfondo di un paese lacerato da rivoluzioni e guerre, si ergono le figure delle donne della famiglia di Mona, a cominciare dalla nonna, passando per sua madre e per finire con la protagonista. Donne che, ciascuna a suo modo, lottano per quella azadi (libertà) che appare irraggiungibile. Emerge altresì il complesso rapporto madre-figlia che sembra perpetuarsi nel tempo.

Stiamo una di fronte all’altra, entrambe ricoperte di stoffa nera. Si concentra, mi cala di più il velo sul viso, mi sistema una ciocca di capelli dietro un orecchio, allenta il nodo sotto il mento. Mi piace. Gli sfioramenti, la tenerezza premurosa, mi piace persino immaginare che mia madre voglia impedire che un uomo sconosciuto riesca a gettare uno sguardo alla mia chioma. Accarezza la stoffa nera sulla mia testa, liscia per un momento il mio cuore screpolato. Il sentimento si volatilizza, quando mi guardo. Chiunque vedrebbe subito che sono travestita”.

Il velo, che nell’immaginario collettivo occidentale rappresenta la prigione nella quale vengono costrette le donne musulmane. Ma il paese nel quale ci conduce Nava Ebrahimi con questo suo romanzo è molto più di un velo che copre la testa delle donne, è un paese misterioso e affascinante, con una cultura millenaria, dove la poesia e la letteratura albergano in ogni casa, dove la gentilezza e l’ospitalità della gente non ha eguali nel mondo. E tutto questo in qualche modo traspare dalle pagine di questo libro, nel quale si alternano sapientemente e in maniera equilibrata le riflessioni negative sulla situazione politica di un regime opprimente e la storia e la cultura di un popolo straordinario.

Recensione di Beatrice Tauro

Titolo: Sedici parole

Autrice: Nava Ebrahimi

Editore: Keller, 2020

Pagine: 330

Prezzo: € 18,00

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